Il profumo asettico dell’antiseptico impregnava le pareti. La luce al neon non dava tregua. Il silenzio, interrotto solo dal bip ritmico dei macchinari, sembrava scandire il battito del tempo sospeso. Svetlana camminava lungo il corridoio con passi misurati. Lavorava lì da poche settimane, ma aveva già imparato una cosa fondamentale: in quell’ala dell’ospedale, dove i pazienti in coma erano come corpi in attesa, il tempo non aveva lo stesso significato.
La stanza 7 era la sua responsabilità. Lì, su quel letto d’ospedale ultramoderno, giaceva un uomo che il mondo intero conosceva.
Viktor Ivanov.
Imprenditore, genio della tecnologia, milionario. Fino a pochi mesi prima era sui titoli di tutti i giornali economici. Poi, un incidente. Una notte di pioggia. La sua auto finì fuori strada, senza segni di frenata, senza testimoni. Si salvò per miracolo. Ma da allora non si svegliò più.
Un corpo, un enigma
Svetlana aveva il compito di monitorare i suoi parametri vitali, regolare i macchinari, curare le ferite da decubito… e cambiare i pannoloni. Era una delle poche cose di cui tutti ridevano.
— Ti rendi conto? Cambi il pannolone a un uomo che guadagnava milioni ogni giorno! — diceva una collega ridendo.
Ma Svetlana non rideva. Aveva studiato, lavorato duramente. E quel corpo immobile non le sembrava affatto morto. Anzi, avvertiva qualcosa. Una presenza. Un silenzio troppo pieno.
Un giorno come gli altri. Fino a quel momento
Era mattina presto. Il reparto era vuoto, il personale ridotto. Svetlana entrò nella stanza 7 con la consueta efficienza. Controllò le macchine, sostituì le flebo, poi si preparò per l’igiene quotidiana. Aprì un nuovo pannolone, lo sistemò sotto Viktor e lo rimosse.
Ma si fermò di colpo.
Sulla parte interna del pannolone c’era una scritta. Fatta con inchiostro blu, tremolante, ma leggibile.
«AIUTAMI. SENTO TUTTO.»

Il cuore le balzò in gola. Si guardò attorno. Nessuno. Le telecamere di sorveglianza mostravano solo lei. Nessuno poteva essere entrato durante la notte.
La mattina seguente, sempre più inquieta, tornò con timore.
Aprì un altro pannolone.
Un nuovo messaggio.
«NON MI STANNO CURANDO. MI STANNO TENENDO QUI.»
Comunicazione impossibile
Quella notte, Svetlana fece qualcosa che nessuno aveva mai osato. Si chinò sull’orecchio di Viktor e sussurrò:
— Mi senti?
Il bip del monitor cambiò ritmo per una frazione di secondo. Non abbastanza per far scattare l’allarme, ma abbastanza per farla trasalire.
Provò di nuovo il giorno dopo.
— Se mi senti, chiudi gli occhi.
Niente.
— Una volta soltanto?
E Viktor chiuse gli occhi. Lentamente. Una volta.
Una verità scomoda
Tre giorni dopo, Svetlana fu sollevata dall’incarico. Ufficialmente, per “eccessivo coinvolgimento emotivo”. Ma sapeva che era una bugia.
Indagando, scoprì che Viktor non aveva più alcun familiare autorizzato a prendere decisioni. La sua società era passata in mani “fiduciarie” — gli stessi uomini con cui era in causa prima dell’incidente.
Viktor Ivanov era diventato un ostaggio. Di un silenzio forzato. Di interessi miliardari.
L’ultima visita
Svetlana entrò nella clinica di notte, usando un vecchio tesserino ancora attivo. Aprì la porta della stanza 7. Viktor era lì, come sempre.
Gli prese la mano.
— Se vuoi che io parli per te… stringila.
E sentì una lieve pressione.
Pianse in silenzio.
Scomparsa
Il giorno seguente, Svetlana sparì. Nessuno la vide più. Il suo appartamento era vuoto. Il telefono disattivato. Le autorità archiviarono il caso come “partenza volontaria”.
Viktor? Trasferito all’estero, secondo i comunicati. Ma nessuno vide mai il nuovo centro.
Una foto anonima
Su un forum online apparve una foto. Un pannolone, aperto, su un carrello medico. Al centro, con grafia tremolante, una frase:
«NON SONO IN COMA. SONO PRIGIONIERO.»