Era una domenica come tante. La luce del mattino entrava dalla finestra della cucina, la moka gorgogliava sul fornello e il silenzio era rotto solo dal fruscio del giornale che mia madre sfogliava. Poi, all’improvviso, senza dire una parola, posò sul tavolo un oggetto.
Metallico. Curvo. Freddo al tatto.
Un oggetto che non avevo mai visto prima. E che, al solo sguardo, mi fece gelare il sangue.
— «L’ho trovato nel cassetto chiuso a chiave di tuo padre,» disse con voce piatta.
Guardai meglio. Non era un coltello, né un attrezzo da officina. Aveva tre bracci flessibili che si diramavano da un nucleo centrale, simile a un artiglio. Nessun marchio, nessuna scritta, solo delle incisioni minuscole lungo le curve.
Sapevo una cosa con certezza: quell’oggetto non doveva trovarsi lì.
Il cassetto proibito
Il cassetto era parte della scrivania nello studio di mio padre. Era sempre chiuso a chiave, e lui custodiva quella chiave con cura maniacale. Nessuno, nemmeno mia madre, ci aveva mai messo mano.
Ma dopo la sua improvvisa sparizione, qualcosa in lei si era spezzato. Così, una sera, quando lui non era tornato a casa e non rispondeva al telefono da giorni, lo aprì.
Dentro c’erano solo tre cose: una vecchia fotografia in bianco e nero, un taccuino e quell’oggetto.
Cosa potrebbe essere?
Inizialmente pensammo a un vecchio strumento medico. Mio nonno era stato chirurgo in guerra, forse era un ricordo di famiglia? Ma nessun medico che abbiamo consultato l’ha mai visto prima.
Un ingegnere meccanico, amico di famiglia, lo osservò con attenzione, poi lo lasciò sul tavolo e disse:
— «Questo non è fatto per l’uso umano. O almeno… non da mani umane.»
Non volle aggiungere altro. Ci consigliò di buttarlo via.
Ma non potevo farlo. Perché qualcosa in quell’oggetto sembrava… attivo.
Ricordi rimossi
Mio padre era sempre stato un uomo silenzioso. Lavorava come tecnico in una struttura di ricerca fuori città. Ci andava ogni giorno, ma non portava mai documenti a casa. Mai una parola su quello che faceva.

Eppure, da bambino, lo avevo visto più volte armeggiare nel garage con strani dispositivi. Una volta, nel cuore della notte, l’ho osservato in silenzio mentre parlava da solo davanti a un oggetto che sembrava… proprio quello.
All’epoca pensai fosse solo stress o stanchezza. Ora non ne ero più tanto sicuro.
Coordinate
Una notte, osservando le incisioni al microscopio, mi accorsi che tra i simboli c’era una sequenza che ricordava coordinate geografiche. Le inserii in un’app di mappe.
Indicavano un punto nel mezzo di una foresta abbandonata, a tre ore da casa.
La mattina dopo ci andai da solo.
La capanna
Tra alberi fitti e terreno fangoso, trovai una struttura in legno. Sembrava una vecchia capanna di caccia, ma dentro c’era un banco da lavoro, strumenti coperti di polvere e — cosa più inquietante — una scatola piena di oggetti identici a quello trovato nel cassetto.
E un taccuino. Con la calligrafia di mio padre.
Il taccuino
Le pagine erano fitte di appunti scientifici, simboli, calcoli. Ma ciò che più mi colpì fu una frase, sottolineata più volte:
«Non si tratta di tecnologia. Si tratta di comunicazione.»
In un’altra pagina:
«Non vengono da lontano. Vengono da prima.»
E infine:
«Il dispositivo ascolta. Se rispondi, qualcosa si attiva.»
Da allora
Ho riportato l’oggetto a casa. L’ho nascosto. Mia madre pensa che l’abbia buttato. Ma non riesco a separarmene.
Ogni notte sento un lieve ronzio. Ogni tanto si illumina debolmente, come se captasse qualcosa. E i miei sogni sono cambiati.
Non sogno più scene casuali, ma luoghi precisi. Dettagli che non ho mai visto, ma che riesco a disegnare con assoluta chiarezza al risveglio.
E la sensazione che non sia finita.