«Vattene nella tua lurida catapecchia!» — ridevano il marito e la suocera mentre cacciavano via Lida

L’aroma di cipolla fritta si diffondeva lentamente per l’appartamento vecchio, impregnando tende logore e muri scoloriti. Lida stava accanto ai fornelli, mescolando meccanicamente la salsa, mentre i suoi occhi si spostavano continuamente sull’orologio appeso alla parete. Mezz’ora ancora e Valera sarebbe rientrato dal lavoro. La cena doveva essere servita calda — lui non sopportava il cibo freddo.

Ultimamente, Lida si accorgeva sempre più spesso che cucinava come un automa. Un tempo ogni piatto era una piccola opera d’arte: provava nuove ricette, decorava i piatti con cura, cercava di sorprendere. Ora tutto era diventato un dovere freddo e vuoto, come molte altre cose in quella casa.

La porta sbatté prima del solito. Lida trasalì, si asciugò rapidamente le mani nel grembiule e corse nel corridoio.

— Valerino, sei già a casa? La cena sarà pronta tra quindici minuti, — disse in fretta, cercando di sorridere.

Lui non le rivolse nemmeno uno sguardo. Gettò la borsa in un angolo e attraversò il corridoio con passi pesanti. Poco dopo entrò la suocera, come una tempesta. Il suo sguardo tagliente catturava ogni imperfezione: l’asciugamano storto, una macchia non pulita sulle piastrelle, la biancheria disordinata.

— Sempre sporco qui dentro! E tu ti chiami padrona di casa? — sibilò con disprezzo senza abbassare la voce.

Lida rimase in silenzio. Cosa avrebbe potuto dire? Che non aveva dormito tutta la notte per pulire e cucinare? Che ogni mattina si alzava alle sei per preparare tutto prima che loro si svegliassero? Che in tutti quegli anni non aveva mai ricevuto una parola di gratitudine?

Niente avrebbe avuto senso. Le parole erano inutili.

Tornò ai fornelli. La salsa bolliva, emettendo sbuffi di vapore. Lida mescolava senza pensare, come un meccanismo arrugginito che da tempo aveva dimenticato il motivo per cui funzionava.

La cena fu servita puntualmente. Valera si sedette a tavola senza degnarla di uno sguardo. La suocera masticava rumorosamente, lanciando frecciatine velenose. Tutto si ripeteva come sempre, come un copione malato che non cambiava mai.

Dopo cena, Valera si alzò con fatica e disse pigramente:

— Mamma, andiamo a vedere la casa di campagna?

— Certo, figliolo! — rispose vivacemente la suocera. — E lasciamo questa qui a casa. Tanto non serve a nulla.

— Non serve a niente nemmeno qui, — rise Valera.

E poi arrivò quella frase che bruciò Lida come un marchio rovente:

— Vattene nella tua lurida catapecchia!

Risero. Forte. Senza vergogna.

Lida rimase immobile sulla soglia, le mani strette in pugni così forti che le unghie le segnavano la pelle. Guardava quei volti familiari e capì: lì non aveva più un posto.

Per la prima volta dopo tanto tempo, non provò dolore, né rabbia. Provò solo una fredda, cristallina determinazione.

Senza dire una parola, si diresse nella sua stanza, raccolse in fretta le poche cose che possedeva in una vecchia borsa. Nessuno dei due se ne accorse. Per loro era invisibile.

Chiuse la porta dietro di sé con calma.

L’aria fresca della sera le accarezzò il viso. Sapeva di pioggia e di primavera.

Camminava piano lungo la strada, stringendo la borsa in una mano, mentre con l’altra tastava il taschino dove aveva messo gli ultimi spiccioli. Pochi soldi. Ma mai come ora si era sentita così ricca. Aveva qualcosa che nessuno avrebbe mai potuto toglierle: la libertà.

Aveva paura, sì. Ma più forte della paura c’era una nuova leggerezza.

Non era più la donna spezzata che avevano costretto a piegarsi. Era qualcun altro ora. Una donna che camminava verso il proprio destino, fiera e libera.

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