Mio fratello ha sposato una ragazza di campagna. Siamo rimasti tutti scioccati. Ma il vero shock è arrivato dopo, quando sono rientrato nel mio appartamento…

Mio fratello Artyom è sempre stato l’anima della festa, quello brillante, sicuro di sé, con un sorriso pronto e mille storie da raccontare. Un uomo d’affari affermato, sempre in movimento, che cambiava auto e fidanzate come se fossero stagioni. Nessuno nella nostra famiglia si aspettava che un giorno si sarebbe sistemato davvero.

Così, quando ha annunciato di voler sposare una ragazza, ci siamo immaginati tutti la solita figura da copertina: elegante, moderna, cittadina. Magari una influencer, o una manager ben vestita con tacchi e tailleur.

E invece, al pranzo di famiglia, ci ha presentato Anja.

Anja veniva da un piccolo villaggio. Vestita in modo semplice, con uno sguardo timido ma gentile. Insegna alle elementari, è cresciuta con la nonna, non ha mai messo piede fuori dalla sua regione. Non indossa trucco, non ha social media, non sa nemmeno cosa sia uno “smartwatch”.

Molti di noi sono rimasti perplessi. Alcuni hanno sorriso in modo imbarazzato. Ma Artyom — il nostro Artyom mondano e scettico — la guardava come se avesse trovato casa.

Un mese dopo il matrimonio, sono partito per una lunga trasferta di lavoro. Vivevamo insieme, io e mio fratello, in un grande appartamento ereditato dai nostri genitori. Finché non trovavano casa propria, lui e Anja si sarebbero fermati lì.

Tre settimane dopo, sono tornato.

Apro la porta con le chiavi. La casa è silenziosa. Ma qualcosa non va.

Tutto è troppo pulito. Non parlo della solita sistemata: parlo di ordine chirurgico. Pavimenti che riflettono la luce. Asciugamani piegati per colore. Ogni angolo profuma di candeggina. Perfino le piante sembrano potate con il righello.

Entro nella mia stanza. Il letto rifatto. Il computer acceso. Sullo schermo, un file Word aperto.

Un documento. Scritto a mio nome.

Il titolo:
«Lettera a mio padre (che non ho mai scritto)»

Inizio a leggere. È un testo intimo, pieno di ricordi dolorosi, domande mai poste, scuse mai dette. Ma io non l’ho scritto. Eppure… ogni frase sembra mia.

Scorro altri file.

Uno è una lettera d’amore, firmata “Anja”.

Un altro, incredibilmente, è scritto come se fosse mia madre a parlare. Mia madre, morta cinque anni prima. Cita episodi dell’infanzia che nessuno conosce. Nemmeno mio fratello.

Sento un nodo alla gola. Cammino verso la stanza di Artyom.

E lì trovo Anja, seduta in poltrona. Con le cuffie nelle orecchie. Gli occhi chiusi. Sul tavolino accanto a lei — un taccuino, decine di fogli scritti a mano. Stili diversi. Calligrafie diverse.

— “Hai scritto tu tutto questo?” chiedo.

Lei apre gli occhi. Sorride.
— “Non proprio. Io ho solo trascritto. Le parole erano già lì.”

— “Dove?”

— “Nell’aria. Nei muri. Nelle cose non dette. Le ho solo ascoltate.”

Chiamo Artyom. Arriva di corsa. All’inizio ride. Poi vede i testi.

Li legge. Ne trova uno che parla del padre che ci ha abbandonato da bambini. Una lettera di perdono. Contiene frasi esatte che lui ricorda, ma che non ha mai detto a nessuno.

Lo vedo sbiancare.

Non ride più.

Oggi vivono in una casa in campagna. Anja non scrive più. O almeno così dice Artyom. Ma ogni tanto, mi chiama la sera.

Mi dice che lei si alza di notte, esce in giardino, si siede e resta lì. In silenzio. Come in attesa.

E al mattino… ci sono nuove pagine sul tavolo.

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