Abbiamo vissuto insieme trentacinque anni. Io ho cinquantacinque anni, lui cinquantasette. In questo tempo abbiamo costruito una famiglia: un figlio e due splendide figlie. Da fuori sembravamo una coppia perfetta: una casa solida, figli educati, un matrimonio duraturo.
La realtà, però, era ben diversa da quella che appariva.
Mio marito, in tutti questi anni, ha lavorato poco e niente. Di tanto in tanto aiutava un amico nella sua officina, ma per la maggior parte del tempo restava a casa, seduto davanti alla televisione. Si lamentava continuamente: della politica, dei vicini, del costo della vita. Criticava tutto e tutti. E spesso anche me, accusandomi di non tenere abbastanza in ordine la casa, di cucinare male, di non capirlo.
Con il tempo, le sue lamentele erano diventate una specie di rumore di fondo. Non ci facevo più caso. Pensavo fosse normale, pensavo che l’amore, dopo tanti anni, si trasformasse in abitudine, in sopportazione reciproca. Pensavo che bastasse mantenere la famiglia unita, che quello fosse il vero successo di una vita.
Fino al giorno in cui lui ha deciso di andarsene.
Se n’è andato senza troppe spiegazioni. Mi ha detto che aveva incontrato un’altra donna, che con lei si sentiva di nuovo vivo. Lei ha circa quarant’anni, è piena di entusiasmo, ascolta i suoi discorsi senza annoiarsi, crede ancora alle sue promesse.
Io sono rimasta sola, in una casa piena di silenzi e fotografie appese alle pareti.

All’inizio è stato devastante. Mi sembrava che ogni angolo della casa parlasse di lui, che tutto quello che avevamo costruito fosse crollato all’improvviso. Le notti erano interminabili, il dolore sembrava non avere fine.
Ma, col passare dei giorni, ho cominciato a vedere la verità.
Ho vissuto trentacinque anni per gli altri. Ho vissuto per lui, per i figli, per la casa. Mi sono dimenticata di me stessa. I miei sogni? Messiin fondo a un cassetto. I miei desideri? Sempre rimandati a un domani che non arrivava mai.
Per la prima volta da chissà quanto, mi sono chiesta: chi sono io?
E la risposta mi ha colpita come uno schiaffo: non lo sapevo più.
Ho iniziato a ricostruirmi, pezzo per pezzo. Ho ricominciato a fare cose solo per me. Una passeggiata al parco. Un caffè da sola al bar. L’acquisto di un libro che desideravo leggere da anni. Piccoli gesti, quasi banali, ma che mi restituivano la sensazione di essere viva.
Poi ho fatto il passo più grande: mi sono iscritta a un corso di pittura, un sogno che avevo da ragazza e che avevo sempre rimandato «perché c’era qualcosa di più urgente da fare».
Ogni giorno, riscoprivo un frammento di me stessa. Ogni sorriso, ogni incontro con vecchie amiche, ogni nuovo hobby mi restituiva quella parte di me che avevo perso.
Oggi, dopo mesi di solitudine e rinascita, so che l’addio di mio marito è stata una benedizione mascherata.
Non porto rancore. Anzi, gli sono quasi grata.
Se non se ne fosse andato, forse non avrei mai avuto il coraggio di guardarmi dentro, di capire che anch’io ho diritto alla felicità, non solo come madre, come moglie o come casalinga, ma come donna. Una donna completa, capace di amare, di sognare, di scegliere per sé stessa.
A cinquantacinque anni, ho iniziato una nuova vita.
Non so cosa mi riserverà il futuro. Forse ci saranno ancora lacrime, forse ci saranno serate vuote. Ma ora so che ogni passo sarà un passo verso me stessa. E questa consapevolezza è più preziosa di qualsiasi promessa non mantenuta.
La vita non finisce a cinquant’anni. Non finisce nemmeno a sessanta. La vita continua finché abbiamo il coraggio di viverla davvero.
E adesso, finalmente, io ho quel coraggio.