Ha tirato fuori un cucciolo di tigre della palude, ma quello che è apparso alle sue spalle…

Un urlo — acuto, straziante, umano. Non il verso di un animale, non il fruscio del vento o un’eco indistinta. Era qualcosa di diverso. Un suono grezzo, primordiale, carico di disperazione. Igor si bloccò. Il suo corpo reagì prima della mente. Il cuore gli batteva forte nel petto, trattenne il respiro, poi si voltò verso la direzione da cui proveniva.

Ancora. Più lontano stavolta, ma inconfondibile.

Non era un ululato. Non una minaccia. Era una supplica. La voce di qualcuno che stava perdendo la battaglia. Un grido che non chiedeva solo aiuto, ma sembrava il bagliore finale di vita prima del precipizio.

Senza pensarci, lasciò cadere lo zaino e si mise a correre.

La foresta gli si chiuse attorno come se fosse viva. I rami gli graffiavano la giacca, le spine gli segnavano le braccia. L’aria era pesante, umida, satura di un odore di muschio e acqua stagnante. Il terreno diventava sempre più molle, insidioso. A ogni passo, il fango lo risucchiava.

Ma lui continuava.

Che cos’era quel suono? Chi poteva urlare in un posto così isolato?

Non era sua intenzione spingersi così lontano. Quel sentiero, mal segnalato e stretto, lo aveva attirato sempre più a fondo nelle zone umide. Doveva semplicemente fotografare alcuni punti per un incarico del dipartimento forestale. La mappa indicava quell’area come «instabile». Avrebbe dovuto evitarla.

Ma ora non importava più.

Il grido si era interrotto.

Il silenzio che seguì era ancora peggio.

Andò avanti. Gli alberi diventavano più fitti, le foglie bloccavano la luce. Era mezzogiorno, ma sembrava crepuscolo. Le pozze d’acqua si facevano più larghe, i tronchi affondavano in laghi immobili. Tutt’intorno, solo quiete. Ma la direzione era chiara nella sua mente. Aveva sentito il richiamo, e ora lo inseguiva.

Poi lo vide.

Tra le canne e i cespugli, qualcosa era stato trascinato. Il terreno mostrava segni di fuga: impronte confuse, solchi nel fango, rami spezzati. Qualcuno era passato di lì. Di corsa. In panico.

«Ehi! C’è qualcuno?» gridò Igor.

Nessuna risposta.

Accelerò. Ogni passo era una lotta. Il peso del fango, il timore crescente. Sembrava che il bosco stesso volesse trattenerlo. Poi, improvvisamente, la vegetazione si aprì. Una radura. Al centro, uno stagno scuro come l’inchiostro, contornato da radici marce e foglie marcite. Sul bordo opposto, qualcosa giaceva a terra.

Si avvicinò.

Era una persona.

Una donna.

Semi-sommersa nell’acqua, coperta di fango, il corpo immobile, le braccia contorte. I capelli lunghi e bagnati le coprivano il volto. Non dava segni di vita.

Il cuore di Igor fece un balzo. «Signora? Mi sente?»

Entrò nell’acqua. Il gelo lo colpì come una lama. Il fango gli arrivava quasi al ginocchio. Ma non si fermò. Raggiunse il corpo, si chinò. Lei respirava.

Debolmente. Ma respirava.

La girò con delicatezza. Le ripulì il viso. Gli occhi si aprirono appena. Azzurri. Persi. Le labbra tremavano.

«Aiuto…» sussurrò.

Una parola appena percettibile.

Igor prese il telefono. Nessun segnale. Nessuna barra. Niente GPS. L’ultima posizione salvata era a tre chilometri di distanza. Doveva portarla via. Ora.

La sollevò tra le braccia. Leggera. Troppo leggera. I segni sui polsi parlavano chiaro: era stata legata. Trattenuta. Abbandonata.

E aveva urlato.

Quel grido. Non lo avrebbe mai dimenticato.

Il ritorno fu una battaglia. Ogni passo una sfida. Il peso della donna, l’oppressione del fango, l’angoscia di essere seguiti da qualcosa che non vedeva. Ma non si fermò.

Dopo due ore raggiunse finalmente il punto con segnale. Chiamò i soccorsi. Inviò la posizione. Crollò accanto a lei.

L’ambulanza arrivò venti minuti dopo. La portarono via. Lui restò lì, tremante, silenzioso.

La donna si salvò.

Si chiamava Katya. Era scomparsa due settimane prima, mentre tornava a casa. Raccontò che un uomo l’aveva rapita, tenuta prigioniera, senza mai parlare. Una notte, senza dire nulla, l’aveva portata nella palude. L’aveva legata. L’aveva lasciata lì.

Come se fosse… un’esca.

Le autorità aprirono un’inchiesta. Esplorarono la zona. Non trovarono il rapitore. Ma trovarono altro.

Tre tombe.

Sepolture improvvisate, poco profonde. Due donne. Un uomo. Nessun documento. Nessuna identità.

Igor divenne un eroe suo malgrado. Interviste, articoli, ringraziamenti. Alcuni lo definirono un salvatore. Altri solo fortunato.

«Ho solo seguito un grido», disse.

Ma la notte, nel silenzio del suo appartamento, sentiva ancora quel suono. Il grido tra gli alberi. Quel suono che ti entra dentro e non se ne va più.

Un suono che cambia ogni cosa.

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