Quando i raccolti si trasferirono in città

Kirill non sapeva esattamente quando aveva iniziato a provare fastidio. Un fastidio muto, sottile, come una goccia che scava piano la pietra. Si era sposato per dovere più che per amore. Sua madre lo aveva ripetuto in mille modi: “Hai quasi trent’anni, Kirill. Tutti gli altri hanno famiglia. Io voglio dei nipoti.” E alla fine, aveva ceduto. Non per passione, non per bisogno, ma per stanchezza.

Sua moglie, Elena, era una brava persona. Almeno all’inizio. Ma nel tempo ogni gesto aveva perso calore, ogni parola era diventata meccanica. Dormiva spesso, cucinava raramente, e parlava soltanto quando era strettamente necessario. A volte lui le lasciava un po’ di cibo sul tavolo prima di uscire, mentre lei ancora dormiva sul divano, avvolta nella coperta come un pensiero non risolto. Nessun bacio, nessuna carezza. Solo gesti minimi. Obblighi silenziosi.

Larisa, invece, era arrivata per caso.

Avevano assunto Larisa per sistemare il piccolo orto che la madre di Kirill aveva abbandonato da tempo. Non era particolarmente bella, né particolarmente brillante. Ma c’era in lei una semplicità così sincera, così disarmante, che bastavano cinque minuti accanto a lei per sentirsi meno soli. Parlava poco, ma ascoltava molto. Non giudicava. E soprattutto, sapeva ridere di se stessa.

Kirill cominciò a cercarla con lo sguardo ogni volta che tornava a casa. A volte fingeva di avere bisogno di qualcosa nell’orto solo per vederla. Lei, inconsapevole o forse no, gli raccontava storie della campagna, della sua infanzia, della pioggia che sa quando deve cadere.

In casa, intanto, il silenzio diventava insopportabile.

Una sera d’estate, Kirill si rese conto che non voleva più rientrare. Rimase in piedi sul marciapiede, guardando la finestra del soggiorno. Era illuminata, come ogni sera. Ma la luce non scaldava. Non chiamava. Non era casa.

Corse via. Corse senza sapere dove stava andando. Forse verso Larisa. Forse verso se stesso. Non c’era rumore nei suoi passi, solo la rabbia sorda di anni persi a cercare di compiacere tutti, tranne se stesso.

Quando tornò a casa, il giorno dopo, la città era diversa.

Non c’erano più fiori nei giardini. I balconi erano secchi. Le bancarelle del mercato erano vuote. Nessuno parlava. Nessuno rideva. I raccolti… i raccolti erano scomparsi.

O, meglio, si erano trasferiti.

Tutti i frutti, tutti i semi, tutta la linfa del paese sembrava essersi spostata altrove. Kirill guardava la gente negli occhi e vedeva solo stanchezza. Lo stesso sguardo che lui aveva visto ogni mattina riflesso nello specchio. Era come se, mentre lui fuggiva da una casa spenta, il mondo intero avesse deciso di spegnersi con lui.

Camminando tra le strade, notò che l’unico giardino ancora vivo era quello della sua casa. O meglio, quello che Larisa aveva coltivato.

C’erano pomodori maturi, lattughe brillanti, erbe che profumavano l’aria. Vita. Vita vera. Vita che non chiede il permesso di esistere.

Elena non era più lì. Forse era tornata dalla madre. Forse aveva capito prima di lui che il loro tempo insieme era finito.

Larisa era in giardino. Non parlò. Non sorrise. Ma gli porse una mela. Rossa, lucida, perfetta.

Kirill la prese tra le mani, la osservò come se fosse un oggetto sacro. E per la prima volta dopo anni, si sedette. Respirò. E pianse.

Quel giorno capì che i raccolti non si erano davvero trasferiti in città. Erano andati dove c’era ancora cura, ancora scelta, ancora speranza. Erano rimasti solo dove la terra era ascoltata, e non sfruttata.

E capì che anche le persone sono come i campi. Se le ami, crescono. Se le dimentichi, si seccano.

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