Quando mia nonna morì, lasciò un vuoto silenzioso nella mia vita. Era una donna discreta, mai eccessiva, ma con una presenza tanto rassicurante quanto imponente. Nonostante l’età avanzata, aveva conservato una lucidità impressionante, ed era sempre stata molto riservata sulla sua giovinezza e sulla vita che aveva vissuto prima che io nascessi. Dopo il funerale, iniziammo a svuotare il suo appartamento. Era un piccolo bilocale nel centro storico, ordinato, quasi immacolato. Nulla fuori posto, nulla di superfluo. Ma c’era un oggetto a cui ero particolarmente affezionato: il vecchio divano verde oliva nel salotto.
Quel divano era stato il trono della nonna per decenni. Ricordo ancora le ore trascorse da bambino accanto a lei, ascoltando storie, mangiando biscotti, osservando la luce del tramonto riflettersi sul velluto consumato. Quando i miei genitori mi dissero che potevo prendere qualcosa della casa per conservarne il ricordo, non ebbi dubbi: avrei preso quel divano.
Lo caricai nella mia macchina con l’aiuto di un amico e lo portai nel mio piccolo appartamento. Era più pesante di quanto ricordassi. Una volta arrivato, lo sistemai in soggiorno, sostituendo il mio divano moderno con quell’antico pezzo di memoria. La sera stessa, notai qualcosa di strano: uno dei cuscini sembrava leggermente più rigido. Forse l’imbottitura si era deformata col tempo, pensai. Ma il giorno dopo, la curiosità ebbe la meglio. Decisi di aprirlo per controllare.
Sfilai con cautela le cuciture ormai logore, tirai via l’imbottitura interna e, tra uno strato e l’altro di ovatta ingiallita, trovai qualcosa di assolutamente inaspettato. Una busta. Sporca, impolverata, ma ben sigillata. Al suo interno, vecchie fotografie in bianco e nero, lettere scritte a mano con una grafia minuta e decisa. Ma ciò che mi fece gelare il sangue fu un piccolo revolver, avvolto in una sciarpa di lana.
Presi un respiro profondo e iniziai a leggere le lettere. Il contenuto era sconvolgente. Mia nonna, negli anni ‘50, aveva avuto una relazione con un uomo che, secondo quanto scriveva, era coinvolto in affari loschi: traffici illeciti, scommesse clandestine, forse peggio. Le lettere descrivevano un progressivo deterioramento del loro rapporto, fino a una notte precisa. La lettera finale era datata 3 gennaio 1958, e terminava con una frase agghiacciante: “Non potevo permettere che facesse del male a me o al bambino. Ho fatto quello che dovevo fare.”
Il bambino. Mia madre?
Continuai a cercare e trovai un vecchio diario. All’interno, la narrazione più dettagliata di quella notte: l’uomo era entrato in casa alterato, minaccioso. Lei lo aveva affrontato. Un colpo solo. Nessuno seppe mai cosa fosse successo. Il corpo non fu mai trovato. Mia nonna scriveva che aveva nascosto la pistola come ultima precauzione, un ricordo amaro che sperava nessuno trovasse mai.
Chi era davvero mia nonna? Una vittima, una sopravvissuta, o qualcos’altro? Le autorità non erano mai state coinvolte, non c’erano registrazioni di indagini. Forse nessuno aveva mai denunciato quell’uomo come scomparso. Forse nessuno ne sentì la mancanza. Rimasi seduto sul pavimento per ore, con i documenti sparsi davanti a me, travolto da emozioni contrastanti.
Decisi di non consegnare la pistola. Era ormai arrugginita, inutilizzabile, ma quel gesto mi sembrava un tradimento della sua memoria. La seppellii in un luogo che solo io conosco. Quanto alle lettere, le conservai. Un giorno forse le farò leggere a mia madre, quando sarà il momento, se mai lo sarà.
Quella notte, seduto sul vecchio divano, non riuscivo a dormire. Ogni cigolio sembrava un sussurro del passato. Ma, in fondo al cuore, sapevo che quel segreto custodito per decenni parlava di una donna che aveva lottato per la propria sopravvivenza in un mondo che non perdonava. Non era solo la mia nonna affettuosa. Era una donna che aveva affrontato l’oscurità, e ne era uscita viva.