La morte di mia nonna, a novantuno anni, fu un colpo prevedibile ma ugualmente doloroso. Era l’ultima figura anziana della famiglia, una presenza silenziosa ma stabile, di quelle che sembrano immortali fino al momento in cui la realtà ti riporta bruscamente con i piedi per terra.
Dopo il funerale, toccò a me occuparmi dell’appartamento. Nessuno ci abitava più e i miei genitori, ormai troppo avanti con l’età, preferivano che fossi io a decidere cosa tenere e cosa buttare. Era un piccolo bilocale al secondo piano di una palazzina costruita negli anni Sessanta, lo stesso in cui ero cresciuto passando molte delle mie estati da bambino.
L’appartamento era rimasto fermo nel tempo. La tappezzeria sbiadita, le tende pesanti color senape, l’odore misto di lavanda e naftalina. Ogni oggetto sembrava avere una storia da raccontare. E al centro del salotto, come un trono austero, c’era il divano. Un modello vecchio, imbottito, con grandi braccioli in legno scuro e un tessuto a fiori ormai logoro. Ci ero cresciuto sopra, facendo capriole, dormendo durante le partite in televisione e ascoltando le storie della nonna mentre lavorava all’uncinetto.
Quando arrivò il momento di decidere cosa fare di quel divano, non ebbi dubbi. Nonostante fosse vecchio, aveva qualcosa di affettivo che non potevo buttare. Lo feci caricare su un furgone e lo portai a casa mia. Volevo metterlo in una stanza che stavo arredando come studio. Pensavo di farlo rivestire, rinnovarlo, dargli una nuova vita.
Fu durante il trasloco che successe qualcosa di strano.
Uno degli operai, mentre lo sollevava da un lato, si accorse che qualcosa al suo interno si muoveva. Un suono ovattato, come un oggetto metallico scivolato da una parte all’altra. “C’è qualcosa dentro,” disse, “forse un vecchio attrezzo dimenticato.”

Decisi di aprirlo. Togliemmo il rivestimento, scucimmo una parte del fondo, e fu allora che lo vedemmo.
All’interno del telaio, nascosta tra l’imbottitura e il fondo in legno, c’era una busta spessa, avvolta in un panno grigio. La aprii con mani tremanti, aspettandomi magari delle vecchie lettere, fotografie, chissà. Invece trovai qualcosa che nessuno avrebbe potuto immaginare.
C’erano banconote. Tante. In lire italiane. Alcune vecchissime, del periodo pre-euro, ma in perfetto stato. In mezzo alle banconote, avvolti in un altro panno, c’erano anche alcuni pezzi di gioielleria antica: una collana d’oro massiccio, due anelli con pietre scure e un orologio da polso che pareva risalire agli anni Trenta.
Rimasi senza parole. Mia nonna, così riservata, non aveva mai parlato di risparmi nascosti o oggetti preziosi. Era una donna semplice, che cucinava minestroni e faceva la maglia. Ma evidentemente aveva scelto di nascondere lì dentro qualcosa di molto importante per lei.
Portai il tutto da un esperto. La somma in lire, convertita e sommata al valore dei gioielli, ammontava a una cifra sorprendente. Quasi centomila euro.
In famiglia si aprì un acceso dibattito. Alcuni ritenevano che quei soldi dovessero essere divisi tra gli eredi. Altri, più attenti alla volontà della nonna, pensavano che avesse lasciato quella “eredità nascosta” apposta per qualcuno. Non c’era alcuna lettera, nessun biglietto, nessuna indicazione.
Poi mia madre disse una frase che cambiò tutto: “Quel divano era il tuo preferito. Se l’hai preso, forse non è stato un caso. Forse era per te.”
Non lo so con certezza. Quello che so è che ho usato una parte di quei soldi per restaurare completamente il divano. L’ho lasciato identico a com’era, con lo stesso tessuto floreale. Lo tengo nel mio studio, sotto una finestra da cui entra la luce al tramonto.
Ogni tanto mi siedo lì. Chiudo gli occhi. E sento la voce di mia nonna che mi racconta storie, come quando ero bambino. Come se fosse ancora lì, tra le pieghe di quel vecchio divano, a custodire i suoi segreti.